Era il 29 maggio del 1968, ci troviamo a Londra, più precisamente nel tempio di Wembley: era la finale della Coppa dei Campioni tra Manchester United e Benfica. Alle ore 22.45 con perfetto tempismo, Bobby Charlton interviene su un cross di Brian Kidd, mettendo a referto la quarta rete, quella che sancì il definitivo 4 a 1. Bobby corse sotto la curva, inseguito dai suoi compagni di avventura: George Best, Stiles ed Aston. Dopo l’esultanza la mezzala dei Reds tornò verso il centrocampo, scambiò un’ occhiata d’intesa con Matt Busby ed infine indirizzò gli occhi verso il cielo notturno di Londra, come a voler salutare qualcuno. E proprio in quell’istante Bobby Charlton sapeva di aver mantenuto la sua promessa. Una promessa fatta dieci anni prima, quando lui non era ancora il capitano del Man United, ma solo un ragazzino che si apprestava a proseguire la leggenda dei “Busby Babes”. Cos’è una promessa? Un modo per diagnosticare il futuro, un filo conduttore che, in una sorta di tempo sospeso, lega il desiderio del passato con la necessità del presente. E in quella serata di fine primavera, niente e nessuno avrebbe potuto impedire a un ex ragazzino timido di tener fede alla sua, di promessa. Bobby Charlton aprì le marcature e le chiuse, come fa un perfetto capitano. Poi volse lo sguardo al cielo, e sorrise. A loro modo, da lassù, scintillanti come stelle, Duncan, Roger, Geoff, Mark, David, Eddie, Liam e Tommy, ricambiarono quel commovente sorriso.